Un’Elfa dalla bellezza unica e un pittore talentuoso, entrambi vittime dello stesso fato.
Prego, sedete. Un nuovo viaggio nelle Leggende sta per iniziare.
Bernie
Il caldo sole pomeridiano scaldava l’aria sul campo di grano, baciando dolcemente sulla testa una giovane elfa. Il gentile vento d’estate le sollevava i lunghi boccoli dorati poggiati sulle spalle. Il lungo vestito perlaceo le cingeva stretto il corpo mettendo in risalto il suo grande, vivo, grembo.
Non era solo per la sua ricchezza che nel villaggio era conosciuta ma soprattutto per la sua ben rinomata bellezza. Un volto giovanile e dai sinuosi tratti la faceva sembrare uscita dai più bei ritratti dei grandi artisti del passato.
Una gentilezza unica era impressa nei suoi verdi, bellissimi, occhi. La pelle candida e soffice sembrava esser stata ricamata dal migliore dei sarti col materiale più pregiato.
Non c’era, in effetti, ancora alcuna opera artistica in grado di imprimere eternamente l’unicità di quel viso e di quel corpo. Era conosciuta a quel tempo come la Dea di Imunvalan.
Tra tutti quelli che di lei s’innamorarono, il fortunato ad averla in sposa fu un giovane e talentuoso mago, anch’esso Elfo. La sua sicurezza e determinazione non gli furono d’intralcio nel mostrate il suo buon cuore e la sua inguaribile dolcezza.
Il corpo era come scolpito nel più pregiato marmo dalle abili mani di un Nano. I suoi lunghi capelli, come lisci fili d’argento, si lasciavano accarezzare dal vento. Gli occhi sembravano erano rossi come rubini.
Anche lui era lì quel giorno. Le spighe auree di grano si piegavano al passaggio dei giovani sposi, inchinandosi al fertile ventre dell’elfa.
E fu proprio in quel luogo e in quel tempo che Enna Lumynyon nacque.
Nobile e gentile di carattere, ognuno a Imunvalan le voleva un gran bene. Si era sempre mostrata curiosa e attiva. Superava il padre in determinazione e la madre in generosità. Nulla chiedeva agli altri senza provare a meritarselo, in nessun caso.
E tra tutti i suoi pregi l’unica in cui rimaneva imbattuta, persino dai genitori, era la bellezza. Non era una bellezza scontata né semplice da comprendere. Tutti, indipendentemente dall’età, riuscivano a trovare in lei una bellezza riconoscibile ma non comprensibile. Aveva conquistato i cuori di ognuno e nessuno sembrava averne capito il motivo. Non sarebbe forse bastato lo studio di chissà quanti sapienti per trovare la risposta a una domanda tanto semplice quanto complicata: «Cosa ti piace di lei?»
Aveva ereditato lineamenti e capelli dalla madre, mentre il fisico e gli occhi dal padre.
Faceva sembrare addirittura che la famiglia Lumynyon fosse benedetta da chissà quale entità benevola.
Ella era tanto cara e tanto buona. Aveva avuto molte possibilità di sfruttare quella sua bellezza per i propri interessi tra nobili e stranieri che tutto le donavano pur di poterla avere in moglie, ma lei sempre rifiutava. Restituiva, quando le era permesso, i doni che riceveva e condivideva quelli che era costretta ad accettare con chi era meno fortunato di lei.
Era così amata e apprezzata dal villaggio che all’unanimità venne chiamata e conosciuta in eterno come la Dea di Imunvalan, strappando il titolo all’orgogliosa madre, che non poteva essere più fiera della figlia. Un grande dono è da sempre la bellezza d’animo, poiché più difficile da proteggere dalla malvagità della realtà e infinitamente più forte del male.
I suoi genitori erano molto felici delle conquiste della figlia e non perdevano mai occasione di mostrarle il loro apprezzamento o accontentare la sua curiosità.
Tuttavia, man mano che cresceva la bella Enna sentiva un peso. Vivere in quel villaggio ormai ben conosciuto e scoperto da cima a fondo non bastava. Voleva viaggiare. Vedere coi propri occhi i paesaggi che aveva sentito dai più bei racconti. Voleva conoscere ciò che mai aveva immaginato né conosciuto. Era incuriosita da nuovi pensieri e scoperte.
Riuscì a convincere in fretta il capo di una carovana di passaggio a portarla con sé e quando disse ciò ai genitori loro le sorrisero e le prepararono le valigie.
«Figlia mia, quando vogliamo qualcosa il corpo ce lo comunica con la tristezza o con la gioia. Hai fatto bene a non frenarti, adesso ti preparo tutto.» le disse la madre.
«Siamo nati per conoscere, tesoro. Se per conoscere dobbiamo viaggiare non abbiamo che da dire: “Vai!”. Siamo fieri di te, piccolina, ricordalo sempre. E ricorda anche che questa porta per te e chiunque ti sia amico è sempre aperta.» aggiunse il padre.
Passarono molti, molti mesi. Con la carovana aveva compiuto già un lungo viaggio. Aveva visto le alte montagne e i placidi laghi di cui gli antichi tessevano le lodi. Aveva visto foreste così fitte da non lasciare spazio ai raggi del sole e praterie così aperte da venir percorse dai centauri. In tutti i villaggi in cui la carovana si fermava conosceva persone diverse in modi e in pensieri. Non poteva sentirsi più felice di così. O almeno così diceva.
Fu così che giunse a Lemunt, dove arrivò a conoscere Rhyb Monther, un elfo dall’aspetto trascurato e selvaggio. Dal villaggio era conosciuto come “lo strambo” e attirava su di sé le risate dei compaesani. Aveva però un atelier in cui dipingeva.
La sua mano era precisa e sapiente. Riusciva ad affiancare magnificamente tratti decisi come l’aratro con tratti soffici come la neve appena caduta. Nulla per lui era più importante dell’arte. L’arte era da sempre la sua fonte di vita e di gioia.
Ma come già detto era spesso schernito dal villaggio. Non lo comprendevano. Nella loro mente arretrata la pittura era uno spreco di tempo e soldi. Credevano fermamente che l’arte non fosse utile in alcun modo, dunque non aveva senso investirci del tempo.
Isolato e maltrattato, Rhyb si dedicava solo ai propri quadri. Dipingeva tutto ciò che riusciva a toccare, immaginare, vedere. Dalle alte fronde dell’albero sacro Leimmnel alle nature morte, tutto risultava bello e maestoso se a dipingerlo era “lo strambo”.
Enna fu incuriosita alla vista di questo elfo solitario nella taverna festante quindi decise di avvicinarlo. Provò a parlarci ma lui faceva fatica ad aprirsi. Nonostante l’entusiasmo travolgente della ragazza Rhyb non riusciva a portare avanti un discorso. Era così poco abituato a venire preso in considerazione che ogni sua tentata spiegazione su cosa facesse era confusionaria e goffa.
Quando la giovane apprese che lui faceva l’artista insistette affinché le mostrasse il suo atelier, così lui l’accontentò. Pensò che se a parole non sarebbe riuscito a parlarle l’avrebbero di certo fatto i suoi quadri. L’artista aveva visto fin da subito nella nuova straniera un cuore d’oro e degli occhi intelligenti. Il villaggio iniziò a prendere di cattivo occhio la bella Enna, però.
L’elfa non riusciva a contenere la propria euforia e saltava da una parte all’altra dell’atelier, ammirando e lodando ogni singolo quadro presente. Rhyb non sapeva cosa dire né cosa fare. Non aveva mai visto alcuna persona interessarsi alla sua arte. Aveva sempre creduto d’essere sbagliato e incompreso ma dentro di sé era certo di aver trovato un’amica con cui condividere la propria vita. Timidamente riuscì a dire: “Vuoi che ti mostri come si fa?”.
Gli occhi di Enna divennero stelle. Aveva trovato un motivo per concludere quel lungo viaggio a cui si era per tanto tempo dedicata. Aveva trovato un motivo per iniziare a chiamare un altro luogo casa.
Aveva trovato un motivo, sì.
I primi giorni le sembravano idilliaci. Stava apprendendo sempre di più sulla pittura e adorava guardare Rhyb esprimersi così naturalmente per quell’arte mai scontata. Un qualcosa di nuovo che sembrava poter avere nessuna fine, perché nonostante fosse tutto così semplicemente ripetitivo rimaneva costantemente diverso. Il villaggio rideva della questione, credendo che ben presto la bella elfa si sarebbe stancata e avrebbe lasciato perdere quelle inutili sciocchezze.
Ma nessuno di loro conosceva Enna. Lei era rimasta lì per un motivo e fino a quando questo avrebbe continuato ad esistere, pure se quasi invisibile, lei avrebbe perseverato.
Imparò a dipingere dal migliore maestro ma mai riusciva a raggiungerlo. Mentre a lei sembrava essere un qualcosa di meccanico e tecnico, lui la trovava come la cosa più naturale del mondo. Come una bestia assetata beve l’acqua del fiume, lui maneggiava i pennelli e i colori nella maniera più spontanea.
Non puoi correre più di un purosangue, pur mettendoci tutta la volontà a tua disposizione, senza l’aiuto della magia.
Ma la sua mano sembrava essere incantata e nemmeno la magia poteva superare la bellezza dei suoi dipinti, la fanciulla lo avrebbe giurato.
Enna dava il meglio di sé come modella. Riusciva ad accontentare Rhyb in ogni richiesta e come una musa concessa da Kinhgragon in persona accanto a lei l’artista riusciva ad immaginare più di quanto già prima facesse.
Una coppia che dall’arte era accesa e che l’arte amava più d’ogni altra cosa.
Mentre nell’atelier l’immaginazione creava quadri più impressionanti e unici di qualsiasi opera dei grandi artisti passati, nel villaggio iniziavano a girare voci maligne e calunniose.
Parlavano della bella Enna talvolta come una maga ammaliatrice, talvolta come una povera vittima dei deliri di un pazzo. Si diceva anche che lei non cercasse nulla di diverso dall'amore carnale in un uomo, additando il povero e silenzioso Rhyb come un matto in preda ai suoi istinti primordiali. Lo si descriveva come una bestia in grado di rendere selvaggia ogni persona civile al suo fianco.
Si gridava silenziosamente a rituali oscuri e perversi, il tutto alle loro spalle.
I codardi che di giorno nelle strade urlavano allo scandalo, protetti dall’assenza di Enna o Rhyb la sera sedevano silenziosi come cani bastonati accanto a loro.
Ma Enna, a differenza di ciò che la gente pensava, non era stupida. Aveva fin da subito capito che qualcosa non andava. Lo notava negli sguardi e nei modi della gente. Nonostante parlasse molto poco con loro ne riconosceva i sentimenti contrastanti nei cuori. Vedeva l’invidia che provavano nei confronti di Rhyb perché, aveva capito, erano in un modo o nell’altro interessati a lei. Sapeva che giudicavano il gracile artista perché nel loro cuore volevano essere al loro posto.
Ma a lei non interessava. Sapeva ciò che voleva e sapeva soprattutto che nei modi e nelle parole di Rhyb non c’era malizia né interesse. Era ben conscia che l’unica cosa che il povero elfo voleva era il potersi esprimere liberamente con l’unica persona che riusciva ad apprezzarlo per ciò che era.
La situazione iniziò a diventare però insostenibile. Perennemente veniva seguita con sguardo giudicante dalla gente del villaggio e iniziarono a verificarsi i primi spregevoli attacchi all’atelier. Erano iniziati con delle uova tirate sulla porta ma ben presto arrivarono i giorni delle finestre spaccate dai sassi. La cattiveria delle persone stava trovando terreno fertile nella questione e il disinteresse che l’artista e la sua apprendista mostravano stava solo peggiorando la situazione.
Arrivò una sera in cui Enna si stufò. Un’ira che mai aveva provato o mostrato, quella sera, scoppiò dentro il suo cuore.
Stava calando il sole quando stanco per la giornata Rhyb uscì dall’atelier. Non fece in tempo ad incamminarsi verso la taverna che quattro uomini incappucciati e coperti al volto da un foulard nero si lanciarono sul povero artista, iniziando a colpirlo con calci e pugni.
Enna nel mentre stava sistemando alcuni colori ma, allertata dal trambusto e dalle grida, corse fuori.
Le quattro figure alla vista dell’elfa si fermarono e si alzarono. Solo una di loro si fece avanti e, passo dopo passo, iniziava a raggiungerla.
Enna non sapeva cosa fare. Non aveva armi con sé e non poteva chiamare aiuto. Di certo i compaesani avevano già sentito le grida di Rhyb ma avevano deciso di lasciar perdere.
Poteva solo fare una cosa in quel momento. Allargò le braccia e iniziò a produrre suoni che aveva sentito qua e là nel suo viaggio, incastrandoli e rendendoli una strana e terrificante cantilena. Iniziò a sorridere e alzare sempre più la voce mentre quella strana e insensata formula veniva pronunciata.
I quattro si spaventarono e, non volendosi prendere alcun tipo di maledizione o sortilegio, corsero nella foresta oscura.
Enna non riuscì a festeggiare quella vittoria. Appena furono lontani raccolse Rhyb da terra e lo riportò nell’atelier. Gli procurò dell’acqua e cercò di sistemarlo al meglio delle sue possibilità.
Quando l’artista si sentì meglio l’elfa su tutte le furie iniziò a marciare verso la taverna. Sbatté la porta con una forza che nemmeno lei credeva d’avere, scheggiando addirittura il vetro colorato che l’adornava.
La sala era colma come al solito ma stranamente silenziosa. Tutti sobbalzarono a quel forte rumore ma tennero la testa bassa. A passi pesanti raggiunse il bancone e ci salì, rimanendo in piedi. Posava i propri occhi sui presenti, squadrandoli uno ad uno.
Nemmeno il taverniere riusciva a guardarla. Rimaneva immobile dietro di lei, gli occhi fissi sul pavimento.
«Codardi!» gridò.
«Siete solo dei gran codardi! Prima certo credevo foste solo stupidi, ma adesso… Oh, adesso so esattamente chi siete. Anzi, cosa siete. Codardi. Ognuno di voi lo è e ognuno di voi sa di esserlo. Vermi divoratori di terra! Codardi e invidiosi. Non capite perché io stia così tanto con Rhyb, vero? Vi chiedete perché sia così interessata a ciò che fa. Vi chiedete come sia possibile che una ragazza così si interessi allo Strambo, già.»
Solo i più orgogliosi e arditi alzarono lo sguardo ma non riuscirono a dire alcuna parola.
«Ve lo dico io perché. Perché mentre voi schernite ciò che non riuscite a comprendere, in quanto più stupidi dei cinghiali che cacciate e delle trote che pescate, Rhyb cerca di studiarlo. Ha il coraggio di essere se stesso pure dove è pericoloso e sconveniente farlo. Voi siete sempre stati dei codardi e sempre lo sarete. Temete il giudizio degli altri idioti come voi, quello stesso giudizio che usate come arma. E voi sapete esattamente che ho ragione. Ognuno di voi lo sa, brutti idioti codardi.»
Alzò l’indice sulla silente folla e continuò:
«Quello che vi lancio ora è un avvertimento. Chiunque tratterà ancora male in un qualsiasi termine e modo il mio maestro subirà la mia ira. I quattro stolti che avete mandato avevano a cuore la loro vita. Beh, vi dirò una cosa: Per me non è così. Kinhgragon mi sia testimone, trascinerò nell’aldilà chiunque minacci ancora una volta me o Rhyb. Costasse la mia vita farlo!»
Era riuscita nel suo intento. Aveva, nei cuori dei presenti, lo stesso peso di una maledizione scagliata dalla peggiore strega alle sue povere vittime. Sembrava una solenne promessa che era intenzionata a mantenere.
Tutti la fissavano sconcertati ma non dissero una sola parola, anche quando lei scese dal bancone e se ne andò.
Raggiunse l’atelier e rimase con il povero Rhyb, che nel frattempo si era sdraiato su un letto.
Arrivò la notte. Il tramonto era ormai passato da tempo e una fredda, oscura luna guardava il villaggio. Un villaggio che solitamente era fermo e dormiente. Un villaggio che, però, quella precisa notte era intento ad eliminare definitivamente un pericolo che ormai lo attanagliava in una gelida morsa.
C’era chi aveva legno e chiodi, chi si era portato la pece e chi aveva con sé le torce. Tutto era chiaro nelle loro malvagie menti.
Rinchiusero nella casa gli impotenti artisti che purtroppo si accorsero troppo tardi di ciò che stava accadendo.
Ogni via d’uscita fu sbarrata e al gridò di “Brucia strega!” l’atelier fu cosparso di pece e velocemente prese fuoco.
Enna e Rhyb non temevano per le loro vite. Sapevano che prima o poi il giorno della loro morte sarebbe arrivato. Ciò di cui nel cuore avevano davvero paura era che quei magnifici dipinti andassero persi. Circondati dal minaccioso fuoco recuperarono la maggior parte delle tele e rimasero con loro al centro della fiammeggiante stanza.
«Enna, grazie per ciò che hai fatto. Non scorderò mai il pomeriggio in cui ti ho chiesto di rimanere. Ti voglio bene, amica mia» sorrise Rhyb.
Enna rispose al sorriso.
Videro un improvviso lampo e dopo aver riaperto gli occhi si trovarono nel buio più totale. L’atelier in fiamme era sparito e con loro rimanevano solo le tele e, in lontananza, una lanterna.
Una lanterna che però si stava avvicinando, ciondolando lentamente.
Enna iniziò ad intravedere una misteriosa figura. Un tabarro purpureo copriva completamente il corpo. Il volto era nascosto da un cappuccio, anch’esso del medesimo colore.
«Una Regina e un Re sono stati chiamati.» disse con voce decisa e profonda.
Nessuno dei due rispose.
«Ditemi, siete pronti a stringere un patto? Ogni vostro desiderio sono disposto a soddisfare, ma ogni servigio ha un prezzo ed è molto, molto costoso.»
I due si guardarono.
«Salva i nostri quadri, ti prego!» disse immediatamente Rhyb.
«Lasciaci bruciare piuttosto, ma salva loro!» continuò Enna.
«Bene. Il patto è accettato dunque e la parola data verrà rispettata. L’arte vostra sempre vivrà fintanto che io vivo sarò, ma voi per sempre vivrete in bianche celle.»
Mise la mano sinistra sul petto di Enna e la destra su quello di Rhyb mentre un fumo rosso iniziò a propagarsi dal cappuccio verso il vuoto tutt’intorno.
«Una Regina che l’arte perpetua infonde al proprio Re.»
L’elfa fu tramutata in una carta.
«Un Re che l’arte solo ha amato e che sempre accanto alla propria fedele musa rimarrà.»
Anche Rhyb venne tramutato in una carta.
«E ora invoco te, custode dei due artisti. Fante di quadri, ora li proteggi.»
Una carta calò dall’alto di fronte allo sconosciuto, che tutte e tre raccolse e nel tabarro nascose.
«Il patto è così mantenuto, Myhunnun. Il Maestro di Carte una nuova missione ha compiuto.»
Una risata demoniaca si propagò nel vuoto mentre il fumo dal cappuccio smetteva di uscire. Ci fu uno schiocco di dita e le tele tornarono nell’atelier.
Quando i popolani cercarono tra i resti fumanti dell’atelier i corpi dei due non trovarono nulla, oltre a tutte le opere di Rhyb, ancora miracolosamente intatte.
In ogni modo cercarono di distruggerle ma non esisteva ascia abbastanza forte o fuoco abbastanza caldo da poterli intaccare. Sopravvissero anche quando, diversi anni più tardi, il villaggio venne divorato dalla terra, crollando su se stesso.
Ancora le opere di Enna e Rhyb sopravvivono al tempo e alle avversità, dimenticate chissà dove.
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