Ricordo che Iwon mi raccontò questa storia molti anni fa, quando fui molto più in confidenza con lui. Certo, in quanto locandiere era facile entrare nelle sue corde…
Comunque, quello che sto per raccontarvi è l’incredibile passato di un uomo molto particolare. Un uomo che non ha mai smesso di amare e non ha mai smesso di lottare per ciò che riteneva giusto. Un uomo che poche volte ho visto come quando mi raccontava della sua giovinezza.
Bernie
Iwon Ohery nacque nella periferia di Magh’Dragar.
Una città portuale, situata direttamente sul fiume Magh, nel Regno degli Uomini. Veniva definita come la “perla bianca”, il cui nome era dovuto sì alle numerose ricchezze che la città conteneva e attirava ma anche dal tipico colore dei palazzi più importanti della città, come il municipio e le mura. Alte torri bianche stagliavano infatti sulle enormi piazze cittadine.
Gargantueschi parchi avevano una variegata popolazione faunistica e vegetale, tanto da attirare le attenzioni di diversi studiosi dall’Accademia locale.
Le ampissime strade, racchiuse tra alti palazzi, tra negozietti e locali, ospitavano centinaia di persone che spesso a fatica si facevano spazio tra la calca.
Nei mercatini di ambulanti l’odore fitto di spezie e di legno si confondeva, tra le urla degli artigiani, a quello del sudore, specialmente nelle afose giornate estive.
Al porto centinaia di locande coi nomi più disparati accoglievano flotte di turisti, pronti a passare un po' di tempo in una delle città più conosciute e rispettate del Regno.
Al di fuori delle mura infiniti campi di grano si stendevano per centinaia e centinaia di metri.
Tutto questo era dovuto certamente alla buona volontà della gente del posto, ma da non sottovalutare era il lavoro che il sindaco del tempo, tale Mehyal N. Voguery, aveva fatto. Era riuscito a tenere sotto controllo i facoltosi più pericolosi, soprattutto i sospetti di corruzione, potenziando allo stesso tempo la difesa urbana investendo in nuove tecnologie e in nuove Guardie da mettere a disposizione della città. Aveva sacrificato parte del suo compenso, inoltre, per rendere la città più attrattiva investendo nel commercio, nel turismo e nelle accademie. Aveva avuto la fortuna in realtà di aver avuto dei predecessori del suo stesso stampo che avevano apportato alla città molteplici benefici.
Fu in un triste giorno di pioggia che un giovanissimo Iwon apprese l’amara notizia. Mehyal era morto durante la notte nella sua residenza, in maniera a dir poco sospetta.
Nonostante fosse un ragazzino capì subito che quello sarebbe stato un punto di svolta. Da quel giorno la Perla Bianca non sarebbe stata più la stessa. La conferma gliela diede il tempo.
Proprio i nobili corrotti che erano stati tenuti al guinzaglio fino a quel momento erano ormai liberi dalle catene della giustizia. Nei giorni successivi si infiltrarono nel consiglio cittadino e fecero eleggere con ogni mezzo un famoso possessore di terre. Il suo nome sarebbe stato scritto nella storia di quella città, ma non certo con benevolenza. Si chiamava Monn Jhil Klyneiamenn.
Durante il secondo giorno del proprio insediamento i vessilli del suo casato, rappresentanti un'aquila bianca racchiusa in un sole nero circondato da un rosso cielo, vennero appesi in tutti i luoghi più rinomati e importanti della città. Venne percepito da tutti i residenti, specialmente i più poveri, il messaggio, ossia "Qui ora comando io.". Si trattava di un'imbarazzante e incresciosa propaganda di forza che aveva iniziato ad appesantire l'aria delle periferie della Perla Bianca, come venne descritta poi da coloro che la vissero.
Nel centro della città non si notò alcun cambiamento. Sembrava infatti che questo Monn guardasse di buon occhio i lussuosi edifici che avevano reso Magh’Dragar degna del nome che portava. I più facoltosi uomini di spicco vennero cullati e tranquillizzati.
Ma nelle periferie l’aria si faceva sempre più pesante. I turni di guardia nelle zone povere della città erano diventati più frequenti e le pattuglie sembravano essere più aggressive. Allora non se ne erano resi conto, ma quelli che erano stati incaricati di proteggerli stavano tastando il terreno su cui poi avrebbero preso il controllo. Fu così che i reati aumentarono. Reati compiuti da agenti sotto copertura. Stavano, in sostanza, creandosi la scusa per poter prendere potere sulla sicurezza cittadina. E così fu.
Sette Lune passarono prima che la fase iniziale del piano di Monn si concludesse. Fece un discorso alla città, cercando di giustificare l'inserimento nelle forze dell'ordine una forza privata creata proprio da lui. Sfruttò tutto il suo potere e carisma per far passare la notizia come una misura necessaria per contrastare il crimine e i più ricchi, chi per convenienza e chi per disinteresse, lasciarono che il nuovo corpo armato prendesse possesso della sicurezza della città. Una forza armata comandata direttamente dal sindaco e che, per mostrargli fedeltà, portava l'animale simbolo dei Klyneiamenn sulla propria armatura. Fu così che gli aguzzini di Monn, detti anche "Aquile", presero il controllo delle strade
Il sindaco aveva vinto. La città era finita nei suoi artigli e nessuno aveva fatto nulla per impedirglielo.
Iwon tornò a casa dal lavoro, finalmente. Nonostante la tenera età, venne costretto a portare su di sé il peso delle responsabilità. Fu obbligato dal destino a trovare un impiego ai limiti dell’umano in una bottega nel centro. Da quando tre anni prima l'ex sindaco era morto la situazione per i più poveri continuava a peggiorare.
Suo padre era un marinaio, morto quando ancora Iwon era in culla, a causa di un incidente al porto causato da alcuni carichi.
Sua madre, povera anima, faceva quel che poteva. A causa di una malattia molto rara aveva perso l’uso di una gamba, perciò per lei era difficile lavorare. Riusciva a ricavare qualcosa cucendo e lavorando a maglia. Purtroppo, però, non bastava. Ciò la faceva soffrire più della malattia.
Quando seppe che il suo amato figlio, che avrebbe voluto proteggere e a cui avrebbe voluto dare tutto, aveva iniziato a lavorare per sopperire alle sue mancanze, si sentì così tanto in colpa che scoppiò in un pianto disperato. Ci vollero molti minuti di rassicurazione da parte del figlioletto perché potesse tranquillizzarsi.
Quando aveva tempo, Iwon si ritrovava con i suoi amici d’infanzia. Anche loro avevano iniziato a lavorare.
«Ehi, Keyla, sai dove sono gli altri?» chiese il giovane Ohery.
La giovane dai capelli rossi sorrise: «Come sempre, il luogo di ritrovo è al vecchio salice! Stupido Wo!»
Un sorriso gli sfuggì sentendo quel nomignolo. Da quando lui e i suoi amici avevano iniziato a lavorare aveva avuto sempre meno tempo per poter stare con tutti.
Iniziarono a correre per le solitarie vie della periferia, quando due Aquile placcarono Iwon e presero Keyla dalla collottola della sporca camicia.
Il giovane subito venne subito sbattuto a terra.
«Lo sapete che non si può correre, vero?» ringhiò il più giovane, per poi tirare una manganellata al petto di Iwon.
Una scarica di dolore si propagò per tutto il corpo. Fece fatica a nascondere il male provato. Non voleva che Keyla potesse preoccuparsi, in una qualsiasi misura.
«Veramente…» provò a rispondere, ma fu subito zittito con un secondo colpo, questa volta al ventre.
«Non ce ne frega nulla, adesso lo sapete. Ma se dovessimo beccarvi ancora a trasgredire una qualsiasi legge, allora la punizione si rivelerà più severa. Spero di essere stato chiaro, sia con te che con la tua sorellina.» concluse, con un ghigno.
Effettivamente, Iwon e Keyla avevano caratteristiche simili, come i capelli rossi e gli occhi verdi. Tuttavia, nonostante la loro età fosse la stessa, il fanciullo era molto più grosso e robusto di tutti i suoi coetanei.
Non appena le due Aquile se ne andarono, Iwon disse: «Questi stronzi stanno iniziando a farsi più cattivi…».
«Wo, tutto bene?» chiese la giovane, guardandolo preoccupata.
«Sì, tutto bene Key.».
«Mmm… Ho sentito dire che i genitori di Seyta hanno rischiato grosso qualche giorno fa. Per fortuna erano in centro e, come ben sai, lì le punizioni mica le danno. Ma lei ha paura che da un giorno all’altro possano venire presi e…».
«Dobbiamo trovare il modo di aiutarli. Poi con il fatto che alle persone dei vicoli non sia permesso lasciare la città, è ancora più difficile scappare dalle loro grinfie… ci sarà comunque tempo per risolvere la situazione.».
Si incamminarono verso il vecchio salice, famoso centro di ritrovo per i giovani delle periferie. Un alto albero, imponente e magnifico, che si stagliava sulla piazza quadrata, decorata solo da un paio di panchine. I suoi rami, nonostante l’altezza, arrivavano quasi a toccare la terra, permettendo a chiunque di nascondersi sotto le fronde, senza la necessità di arrampicarsi.
«Finalmente arrivano!» sentirono urlare da sotto la pianta.
Moher uscì, agitando le braccia. Era un ragazzino secco, ma incredibilmente agile e volenteroso. I lunghi capelli castani venivano raccolti in una lunga coda. Sorrise, mostrando i denti storti.
«Come mai ci avete messo tanto?» chiese poi un altro, facendo sbucare la testa tra i rami. Un ciuffo nero metteva in ombra l’alta fronte e gli occhi azzurri.
«Eravamo già in ritardo, poi le Aquile ci hanno fermato e… Ma dove sono gli altri, Krammer?»
«Pej e L sono qua sotto ad armeggiare con qualcosa che non ho ancora capito, mentre Seyta non s’è ancora vista.».
«Mer, quante volte ti ho detto che stiamo facendo una fionda a ripetizione?» si sentì una voce femminile, dal tono scocciato.
Uscì un altro ragazzino. Aveva braccia e spalle robuste, quasi eccessive per uno di quell’altezza. I capelli erano rasati a zero e gli occhi vispi scuri li fissavano mentre si avvicinava.
«Così potremo lanciare più patate ai ratti quando andremo in spedizione.» disse calmo, abbracciando Iwon.
«Pej, a quando la spedizione?» chiese Keyla.
«Anche oggi, se abbiamo tempo. Dobbiamo solo vedere quando Seyta arriverà. Anche perché io ho tempo fino a domani, perché dopo lo sapete che devo tornare nel cantiere.».
Spinti da Moher, il gruppetto si fece strada tra i rami. All’interno la luce era poca. Una minima porzione filtrava dai rami e dalle foglie, ma per la maggior parte era prodotta da candele appoggiate al tronco e sulla terra.
«Finalmente ho finito. Ammirate tutti quanti il nuovissimo JJKR-22. La fionda automatica più formidabile mai creata.» si alzò poi L. Una ragazzina con lunghe trecce castane, occhi neri come la notte e completamente sporca.
«Grandissima, Lauren!» dissero tutti.
«Certo, servono due persone per usarla ma per il resto è fenomenale.» precisò Pej.
Seyta entrò in quel momento.
«Scusate, sono corsa il più velocemente possibile qua.» disse, asciugandosi le guance coi lunghi capelli neri.
Iwon appoggiò la propria mano sulla sua spalla, facendole un cenno. Tutti si abbracciarono. I genitori di Seyta avevano fatto di tutto per gli amici della figlia, conquistandosi il loro affetto. Forse il silenzio che aleggiava al vecchio salice aiutava tutti a digerire la difficile situazione.
In poco tempo, Seyta si riprese.
«Allora si va? Non era oggi che facevamo la spedizione?» disse infatti qualche secondo dopo.
«Sì! Allora, in marcia!» disse Moher, correndo fuori dai rami.
Successivamente in ordine uscirono Krammer, che tenne i rami, aiutato dalla sua altezza e dalle sue forti braccia, Pej e L, tenendo il nuovo marchingegno, poi Keyla, Seyta e infine Iwon, tenendo due sacchi di patate che si erano portati lì i compagni.
Si fecero strada per i vicoli meno frequentati, evitando qualsiasi contatto con le Aquile. Se infatti fossero stati beccati avrebbero rischiato ben più di qualche pugno.
Arrivarono davanti ad una vecchia cassa, mezza distrutta e appoggiata ad un telo.
Li spostarono a fatica. Un tombino malmesso venne messo alla luce.
«Krammer, alzalo. Mi raccomando, quando saremo tutti giù dovremo stare compatti. Non si lascia nessuno indietro. Seyta, Keyla e Moher, voi terrete le lanterne. Io e Pej terremo e caricheremo il JJKR-22, mentre Wo e Mer terranno le munizioni.» disse L.
Tutti fecero un cenno, per poi scendere la scaletta che dal tombino portava alle fogne.
Accesero le lanterne e richiusero il tombino dietro di loro.
Si trovarono in un lungo corridoio alto il doppio di loro. Dai sudici mattoni della volta a botte delle gocce cadevano, lentamente e ritmicamente, andando a infrangersi suoi polverosi rialzi, che fungevano da corridoi e che erano divisi a loro volta da un canalino di acqua putrida nel mezzo. Riuscivano con la giusta accortezza a camminare in coppia.
Il tremendo fetore si fece strada per le narici, penetrando direttamente nel cervello.
Si coprirono il naso con dei fazzoletti, soffocando i conati di vomito. Solo Seyta riusciva a resistere a quel fetore. Infatti lei era l’unica ad essere più volte scesa lì sotto per creare una rudimentale mappa dei cunicoli.
«Forza, muoviamoci!» ordinò L, facendo segno a Pej di camminare.
Il gruppo di ragazzini, a coppie, si fece così strada nelle fogne.
Erano passati appena cinque minuti quando, affacciandosi ad un angolo, Seyta fece segno di fermarsi.
Aveva avvistato, a qualche decina di metri, un gruppetto di quattro ratti.
Silenziosamente Pej e L uscirono.
Il ragazzo teneva con una mano il marchingegno, mentre nell’altra impugnava una patata. Subito Krammer appoggiò il sacco a terra, tirandone fuori altre due.
L, intanto, prese la mira.
Guardò intensamente il gruppetto, spostando con precisione millimetrica la “canna” del JJKR-22.
Si bloccò, tenendo l’occhio fisso sui ratti. Inspirò profondamente. Diede un fugace sguardo al fratello, che fissava il proiettile in canna. Era pronto a caricare. Bene.
Ritornò a fissare le prede.
Il primo colpo partì, raggiungendo l’esemplare più grande alla testa. Si sentì un sommesso crack, poi il corpo rimase immobile mentre i suoi compagni tentavano di fuggire, raggiunti da altri due colpi.
Un secondo fu colpito e iniziò a zoppicare.
«Inseguiamoli! Veloci!» gridò L ricaricando l’attrezzo.
Una lacrima le scese sulla guancia. Aveva funzionato!
«Wo, ricordati i trofei!» disse ridendo.
L’enorme ragazzo recuperò il primo topo e, raggiunto il secondo zoppicante, gli spezzò l’osso del collo riuscendo a non farsi mordere. Li mise entrambi in un vecchio sacco sporco.
«Di qua! Sono andati di qua!» continuava a gridare L, svoltando di vicolo in vicolo. Seyta, intanto, si stava segnando la strada sulla mappa.
Riuscirono a raggiungerli dopo diversi minuti.
Si erano fermati al fianco di un buco nel muro.
Ancora una volta il gruppo di bambini si fermò.
L riprese la mira trattenendo il respiro.
Ancora una volta, il primo colpo raggiunse il bersaglio e come era successo col primo, anche questo stramazzò contro il muro.
L’altro, sotto l’incessante tiro, riuscì a rifugiarsi nel buchetto.
«No!» dissero tutti, in coro.
«Wo, il trofeo…» continuò subito Lauren amareggiata.
Iwon corse a raccogliere il terzo ratto. Arrivato di fianco al muro, un’idea gli venne in mente.
Provò a bussare al muro, appoggiando l’orecchio.
«Sembra vuoto dietro! Molto, troppo vuoto…» riferì poi alla leader.
«Riesci a farlo crollare in qualche modo?»
«Ci posso provare, L. Altrimenti dovremo chiedere a Mer di procurarci un piccone.».
«Ah, non so se riesco a procurarmene uno, vi avviso.»
Iwon tornò davanti al gruppo, appoggiando il sacco di patate.
«Non si sa mai.» sussurrò a Lauren.
Tornato al muro bussò in altri due punti. Ancora riusciva a percepire il vuoto oltre la parete. Il buco sembrava molto grosso. Provò a spingere senza risultato.
«Aspettate, ho un’idea.» disse subito.
«È stupida, Wo!» lo rimproverò L.
Vedendo tuttavia che l’amico non si fermava fece cenno agli altri di stare pronti. Puntarono il JJKR-22 in direzione del muro, già carico e pronto a colpire.
Iwon si allontanò appoggiandosi alla parete opposta. Guardò verso gli amici e dopo un cenno iniziò a correre contro il muro.
Al primo colpo sentì qualche mattone muoversi lievemente verso l’interno. Della polvere schizzò nel corridoio. Riprese la rincorsa andandoci contro una seconda volta.
Un frastuono accompagnò l’improvvisa caduta del vecchio muro.
Il rumore dei mattoni si unì agli squittii delle decine di ratti che spaventati e confusi si lanciarono verso l’esterno, circondati dalla nube di polvere.
Iwon, d’istinto, raccolse un mattone e iniziò a menare colpi da tutte le parti cercando di indietreggiare verso gli amici.
Non appena quest’inferno iniziò L prese di mira ogni ratto che dal muro faceva capolino.
Mentre il branco di topi si faceva strada, cercando di assalire disperatamente Iwon e il gruppo, questi indietreggiavano lentamente continuando a menare colpi.
Ma ben presto gli ultimi sorci rimasti in vita si dileguarono per gli stretti vicoli fognari, lasciando dietro di se una quantità incredibile di trofei.
«Urrà! Evviva!» gridarono tutti insieme, alzando i pugni al cielo. Solo Keyla non celebrò quel momento.
«Riempiremo tutto il sacco!» rise Iwon, girandosi.
Keyla gli si avvicinò con uno sguardo severo. Poche volte l’aveva vista così arrabbiata.
«Fammi controllare come stai, brutto idiota.» disse stizzita.
«Ehi, sto bene. E poi guarda qua, abbiamo vinto!» replicò.
«Ah sì? Beh, i morsi sulle mani e sulle gambe mi dicono che dovresti farti vedere da Ehlya. È brava e discreta, tua mamma non dovrebbe accorgersi di nulla.» continuò fredda. Ma prima di girarsi gli tirò una sberla dietro al collo.
«E non provare mai più a fare nulla del genere, idiota.» concluse, tornando indietro.
«Key ha ragione. Non sapevamo quanti ratti potevano esserci dietro a quel muro. Cosa avresti fatto se ce ne fossero stati anche solo il doppio?» lo rimproverò infine L.
Seyta si era avvicinata al buco, incuriosita da quell’anomala struttura. Sembrava essere una sorta di magazzino segreto. Era il primo che avevano visto, soprattutto lì sotto. Se prima pensavano di conoscere bene quelle fogne adesso non ne erano per niente certi.
La polvere iniziava lentamente ad adagiarsi sul pavimento, lasciando ammirare la struttura che chissà quanto tempo prima venne nascosta. Lo stile era simile a quello delle fogne, seppure fosse più pulito e meno umido. Il punto più alto della stanza arrivava a toccare i 5 metri, secondo le loro stime. Ma la cosa che più li incuriosì fu la lunghezza. Appena entrarono a stento riuscirono a vedere il muro in fondo alla sala. La luce che le torce propagavano si rifletteva solo nelle poche zone in cui l'acqua dall'alto filtrava. Accanto al muro Seyta intravide qualcosa e si avvicinò.
«Guardate, ragazzi! Ci sono delle casse.» disse poi.
Il gruppo la seguì.
«Proviamo a vedere cosa c’è dentro?» disse Krammer.
«Possiamo provare, sì. Tanto sono tutte ancora sigillate. Tenete.» disse L, prendendo un tubo di ferro da terra e passandolo agli amici.
Erano enormi casse in legno tenute chiuse da delle assi fissate con vecchi chiodi. Nessuna iscrizione permetteva di capirne il contenuto. A fatica riuscirono a forzarne una e, quando l’aprirono, si stupirono.
«Che magro tesoro. Solo delle scatolette di latta…» disse deluso Pej.
«Ehi, c’è dentro del cibo!» continuò Iwon.
«E sembra anche commestibile.» replicò L.
«Ma cosa ci facevano qua?» chiese Krammer.
«Non lo so, ma…» rispose Seyta,, guardandosi attorno.
«Sembra un nascondiglio, no?» continuò la ragazzina.
Tutti si girarono.
«Forse, ma potremmo renderlo tale.» rispose Lauren, voltandosi poi verso Iwon.
Dopo qualche secondo, egli continuò: «Potresti portare qui i tuoi genitori, no?»
Seyta si volse.
«Le uscite della città sono perennemente controllate, dunque la fuga è già una via non percorribile. Sperare nella clemenza delle Aquile non è nemmeno da discutere, sappiamo già cosa potrebbe accadere. Perciò questa mi sembra l’unica opzione.» concluse Moher.
Seyta li guardò uno ad uno.
«Li convincerò. E quando lo faremo?» chiese poi.
«Domani mattina, sul presto. Dopo potrebbe essere già tardi.» rispose L.
«Vero. È il momento in cui molti raggiungono i propri lavori e in cui le guardie stanno meno in giro. Sarà più facile e meno sospetto andare in giro.» concluse Pej.
«Anzi, facciamo così! Qui si rifugeranno tutti coloro che vorranno scappare dalle Aquile. Non è una buona idea?» disse Moher.
«Beh, sì.» risposero tutti.
«Bene. Allora, d’ora in poi, questo sarà il rifugio della resistenza!» disse L, sorridendo.
«Dovremmo trovare un nome a questo gruppo allora.» replicò Krammer.
«Che ne dite di Ratti?» propose Moher, guardando i molti trofei che ancora giacevano nel corridoio.
Tutti si guardarono.
«Quindi, da oggi i Ratti si rifugeranno dalle Aquile?» chiese Seyta.
«Meglio. Oggi i Ratti si uniranno per sconfiggere le aquile.» rispose L sorridendo.
Insieme alzarono i pugni al soffitto silenziosamente.
Era un piccolo sogno di un gruppo di ragazzini. Far ritornare la città delle proprie famiglie all’antico splendore. Far ritornare la bellezza che i racconti dei propri genitori gli avevano trasmesso. Era un piccolo sogno rivoluzionario che avrebbe però cambiato il corso degli eventi per sempre.
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