Pure noi della Taverna delle Leggende vogliamo farvi un dono.
Ovviamente intendiamo farlo a modo nostro, perciò speriamo che possiate apprezzare questo racconto.
Una leggenda antica di un popolo orgoglioso, narrante la nascita di una festività importantissima.
Detto ciò, vi auguriamo una buona lettura e un buon Natale.
Bernie & Ormis
La neve scendeva dolcemente e copriva la prateria di un velo freddo. I fiocchi cadevano dalle nuvole aggrappandosi al folto manto dei minotauri, abitanti di quelle terre.
Il villaggio di quella stirpe, composto da molte tende vicine, era nascosto da una foresta di pini. Poco distante si trovava la prateria mentre, inoltrandosi nella foresta si poteva arrivare ai piedi di un’alta catena montuosa.
I bambini, riparati nelle tende, ammiravano con occhi curiosi quel ciclico miracolo che ogni anno regalava loro magnifici spettacoli. I ghiacciai delle montagne vicine sembravano conquistare, lentamente e inesorabilmente, il terreno.
I minotauri, un popolo duro e forte, forgiato dal tempo e dalle tradizioni, all’arrivo dell’inverno non potevano che essere estasiati. Imparavano e trasmettevano molte lezioni basandosi sulle stagioni, e l’inverno non era da meno.
Kharam, il padre di Harat, mise la mano fuori dalla tenda.
«Figlio mio, vieni qua. Vieni.» gli disse, richiamando la sua attenzione.
Il piccolo minotauro dal bellissimo manto nero si avvicinò. Camminando urtava, con le piccole corna, delle ceste che erano appese qua e là all’interno della tenda.
«Papà, papà, guarda! Le corna sono cresciute ancora!»
«È vero, figlio mio. Lo sguardo del Signore delle Praterie è su di te e ti fa crescere, bello e forte. Ma ora vieni qui con me, che devo parlarti.»
Il piccolo Harat capì e si avvicinò in rispettoso silenzio al padre. Infatti, ogni volta che Kharam parlava in quel modo, stava per raccontare una delle sue sagge lezioni. O almeno, questo è quello che ogni bambino nel villaggio credeva. Non appena il fanciullo gli fu accanto, ritirò la mano. Alcuni fiocchi di neve si erano appoggiati sul suo pelo.
«Vedi figliolo? Guarda, questi fiocchi sono leggeri, vero? Come uccelli che volano nel cielo, per poi scendere sulla terra. Ebbene, sono anche molto fragili. Vedi che si sono già sciolti?»
La poca neve che si era accumulata si era già trasformata in acqua. Poi il maestro dal grigio manto riprese a parlare.
«Si è lasciata andare subito sulla mia mano. L’ho scaldata e così essa è morta. Ma guarda fuori. Ora la vedi ricoprire le montagne, i pini e le praterie. Ne scenderà molta oggi e continuerà nella notte, fino a quando domani mattina il Sole tornerà a scaldare queste terre. Ma ti dirò una cosa: la neve non si scioglierà. Nonostante il calore del Sole, la neve resisterà e rimarrà tale. Essa non morirà, perché è circondata da altra neve e compatta non cederà. Questo è quello che la natura ha insegnato ai nostri antenati guerrieri. Questo è quello che io insegno ora a te, come tu lo insegnerai, un giorno, ai tuoi figli. Non è solo la forza del singolo che rende indistruttibile un soldato, poiché ci sarà sempre la mano in grado di spezzarti. È nel gruppo che il guerriero ritrova la sua vera forza ed è grazie al gruppo che può sopravvivere.»
Il bambino guardava con i suoi occhi bruni il padre, estasiato. Ammirava il suo sguardo serio e maestoso provando, impacciato, a replicarlo.
Poi Kharam sorrise e aprì la tenda.
«Ma la forza di un bravo minotauro sta anche nella sua curiosità, perciò, corri fuori con i tuoi amici e divertiti!» gli disse, dandogli una pacca sulla schiena. Sembrava volerlo spingere ad uscire e Harat non si tirò indietro.
Corse fuori ridendo. Di tanto in tanto sbuffava per vedere il fumo uscire dalle narici. Si sentiva forte e potente. Sognava, un giorno, di essere in grado di combattere accanto al padre, per mostrare il suo valore.
Guardando i suoi amici, però, voleva solo giocare. Voleva correre sulla bianca e fredda prateria. Voleva nascondersi sotto i pini, appesantiti da quelle coperte di neve.
Raggiunse Hala, una fanciulla dal pelo biondo e dagli occhi azzurri. Rispetto agli altri bambini aveva un corpo minuto.
«Harat, ti stavamo aspettando!» urlò lei.
«Dov’è Manuk?» chiese lui. Non fece nemmeno in tempo a sentire gli zoccoli sulla neve, che venne investito dal suo amico. Il corpo era molto più muscoloso rispetto a quello di Harat, ma dalla testa ancora non spuntavano le tipiche corna dei minotauri. Il pelo castano scuro lo faceva mimetizzare molto bene tra i tronchi ma di certo non lo aiutava in inverno.
I due bambini caddero ridendo. La neve si aggrappava al loro manto e li imbiancava.
«Devi affinare le tue orecchie, piccolino!» disse Manuk, rialzandosi.
«Non sono piccolo!» sbuffò Harat, togliendosi alcuni fiocchi dalla faccia.
«Sì, lo sei! Guarda, io invece sono già forte!»
«Pure io lo sono!» ribattè immediatamente il fanciullo dal manto nero, mettendosi in piedi.
«Ah sì? Con le parole tutti sono capaci.» rispose Manuk, lanciandogli un’occhiata di sfida.
«Guarda, ammira la mia potenza!» gridò Harat, caricando a testa bassa il tronco di un pino vicino.
Ci fu un sordo tonfo. L’impatto si era fatto sentire e l’orgoglioso bambino non sembrava aver accusato il colpo. Invece, le corna sembravano aver lasciato il segno sul tronco. Passarono pochi secondi che buona parte della neve, accumulata sull’albero, cadde di colpo.
I tre bambini iniziarono a ridere. Hala si mise al riparo sotto un albero e rideva a squarciagola, guardare i suoi amici prendere a testate gli alberi.
Poi la fantasia prese il sopravvento e, immersi nel bosco, si ritrovavano nelle storie che i loro genitori gli avevano raccontato e che i loro antenati avevano vissuto. Sognavano le battaglie, le gesta eroiche sepolte negli anni passati. Respiravano la magia cui le leggende sono intrise.
Quella magia che spesso solo i bambini riescono a vedere, ad accettare, a vivere.
Così la neve continuava a cadere e la vita scorreva velocemente nelle loro teste, permeata di quella sostanza tipica dei miti.
Il pomeriggio volò in quel modo. E quando il Sole si addormentò dietro l’orizzonte, sentirono i genitori chiamarli. Si lasciarono con un saluto e la promessa di rivedersi al pomeriggio successivo.
Intanto, mentre la notte si faceva più scura, un’ombra si avvicinava lentamente al villaggio.
Fuori dalla tenda la notte era immobile. Non vi era il solito freddo vento a correre tra gli alberi e la pianura innevata. Non c’era la luce della Luna a riflettersi su quel velo bianco. Solo lo scoppiettio dei fuochi delle sentinelle, poco fuori dal villaggio addormentato.
Ma occhi giovani e curiosi guardavano l’interno della tenda. Harat non riusciva a dormire. Osservava con estrema attenzione l’entrata, come se facesse la guardia ad un prezioso tesoro. Quando sentiva avvicinarsi i pesanti passi nella neve, iniziava ad immaginare il piano d’azione e a stringere la coperta.
«Prima si sveglia papà, poi si urla e, infine, giù nella mischia.» si ripeteva nella testa.
La fantasia e l’avventatezza dei bambini... Sognano già la gloria delle battaglie, fin dalla culla. Perché le leggende descrivono nei minimi dettagli le bellezze e gli onori del combattimento; tuttavia, si scordano di raccontare quali sofferenze porta con sé la parola “guerra”.
Poi i passi proseguivano oltre e il piccolo rilassava i muscoli. La sentinella stava compiendo il suo dovere, affrontando l’inverno.
La notte però si faceva noiosa e la stanchezza iniziava a farsi sentire. Le palpebre si stavano lentamente trasformando in macigni e tenerle aperte iniziava a fare male. Il sonno prese il sopravvento sulla sua giovane mente e, così, si abbandonò alla magia dei sogni.
All’improvviso sentì come una voce e aprì gli occhi. In un primo momento non aveva capito cosa stesse dicendo. L’improvvisa sveglia lo aveva intontito ma non dovette attendere più di qualche secondo prima di riprendersi.
«Vieni fuori, Harat. Affrontami senza alcuna paura, nella foresta ti attendo. I miei figli ti porteranno da me, ma non temere. Tu che sei della stessa stirpe mia non dovrai temere vento o neve, poiché io ti proteggerò. Scopri ciò che il destino ha creato per te, vieni!» disse quella voce, seria e profonda. Sembrava addirittura provenire da un essere ancora più vecchio degli anziani di quel villaggio.
Per qualche motivo Harat non aveva paura. Si chiese se avvisare suo padre ma, alzandosi dal suo giaciglio, non lo vide. Probabilmente era andato a fare la ronda. La decisione spettava soltanto a lui. Si avvicinò lentamente all’entrata, indossando la pelle d’orso che qualche giorno prima gli era stata regalata.
Aprì lentamente la tenda, osservando fuori con attenzione per assicurarsi che nessuna delle sentinelle potesse scoprirlo.
Dinanzi a lui dei fiocchi di neve stavano svolazzando, formando un cerchio poco sopra alla sua testa. Appena si sporse fuori dalla tenda, una fitta neve iniziò a cadere dal cielo. Quando fu completamente fuori i fiocchi iniziarono a roteare vorticosamente sulla sua testa. Harat li sentiva sussurrare, come a recitare dimenticate formule. Quei fiocchi spingevano la testa e le spalle del fanciullo verso la foresta e lui non oppose resistenza.
D’un tratto una sentinella si parò davanti a lui, guardando nella sua direzione. Nonostante la fitta nevicata non avrebbe avuto alcuna difficoltà nel vederlo. Harat si fermò mentre i fiocchi continuavano a roteare sopra al suo capo.
Poi sentì un sussurro: «Non temere, egli non ti vedrà.».
In effetti il possente minotauro dopo qualche secondo tolse lo sguardo dal piccolo e proseguì nel suo giro. La neve rincominciò a spingere sulle spalle, perciò Harat proseguì nel suo cammino.
Si inoltrò profondamente nella foresta, quando la neve attorno smise di cadere. I fiocchi attorno alla sua testa iniziarono a scendere lentamente, mantenendo le loro orbite, per poi toccare il terreno.
Passò qualche secondo, poi quei cristalli di ghiaccio iniziarono a raggrupparsi lentamente fino a creare due lupi dal folto manto bianco.
Harat ancora non si sentiva in pericolo. Guardava gli strani animali negli occhi di ghiaccio, cercando di studiarli.
Li vide scuotere la testa verso una direzione e capì subito. Non disse nulla, non era necessario farlo. Non percepiva alcuna minaccia attorno a sé e ancora non aveva vissuto esperienze che gli facessero capire quanto quella situazione era sbagliata.
Camminava lentamente, incespicando di tanto in tanto in alcune radici inaspettatamente alte e nascoste.
Gli sembrava d’aver viaggiato a lungo prima di aver raggiunto, finalmente, uno spiazzo in mezzo al bosco. Al centro di un prato circolare vide una piccola capanna, anch’essa circolare. Fuori era illuminata da poche candele ed era fatta con rami di pino e pigne.
Harat aveva esplorato un po’ quella foresta nei giorni precedenti e non aveva trovato nulla. Scoprire quella struttura in questo modo lo lasciò un po’ perplesso. Si fermò sul limitare del bosco, massaggiandosi il mento. I lupi stavano proseguendo il loro viaggio, avvicinandosi inesorabilmente verso la capanna.
Il fanciullo iniziava a sentirsi intimorito, ma era troppo orgoglioso per tirarsi indietro ora.
«Venderò cara la pelle.» mormorò a sé stesso, forse per convincersi.
«Non sarà necessario, giovane guerriero.» rispose la voce nella testa.
Seguì le orme dei lupi, incamminandosi verso la capanna. Quando vi giunse davanti, ritrovò un anziano minotauro ad attenderlo. Aveva il manto bianco e gli occhi color ghiaccio. Il volto era freddo e serio. Delle grandi corna marroni a fatica riuscivano a non bucare il tetto di quella capanna, decisamente piccola per quel corpo incredibilmente possente. Non portava alcun indumento, se non una gonna fatta di neve. I lupi sembravano essere scomparsi.
Quando Harat fu ad una decina di metri il vecchio minotauro si sedette in silenzio.
Il fanciullo si avvicinò con cautela, fino ad arrivare a qualche passo da lui.
«Posso sedermi con lei?» chiese deciso, fissando l’anziano negli occhi.
Egwli rispose con un semplice cenno, senza proferire alcuna parola. Il suo sguardo era criptico e opprimente, ma Harat continuava a sostenerlo.
«Fanciullo di nobile stirpe, sei il benvenuto al mio cospetto.» disse il vecchio, interrompendo il silenzio che aleggiava intorno a loro.
Il bimbo non rispose.
«Prima di tutto, sai chi sono io?» chiese.
«Non lo so, no.»
«E sei venuto comunque fino a qua?»
Il fanciullo rispose con un cenno.
«Harat, figlio di Kharam. Hai lo stesso coraggio del padre, sì. Ne sei un degno erede.»
Il piccolo fece fatica a nascondere lo stupore.
«Non risponderò ora a questa domanda, comunque. Se sei giunto qui è perché ci sono delle risposte che cerchi, vero?»
«Sì.»
Il vecchio minotauro si girò e, dopo qualche secondo, tornò a guardare il piccolo. Aveva in mano della carne secca. Diede un morso, strappando un bel boccone, e offrì il resto al suo ospite. Harat afferrò la carne secca, ma non osava addentarla.
«La mia saggezza è al tuo servizio.» disse, finendo di masticare.
«Come mai sono qua?»
«Perché io ho voluto così. Il destino ci porta molteplici opportunità. Tu l’hai colta. Un altro ha preferito non rispondere alla mia chiamata, mentre l’ultima sta raggiungendoci. Sarà qui a momenti.»
«Perché qua? Come mi conosci?»
«Una domanda alla volta, giovane e impaziente guerriero. Siamo qua perché possiamo parlare senza interruzioni indesiderate. Poi ti conosco perché vivi nel mio regno, ora. Tutte le voci che si liberano in questa fredda aria giungono a me. Conosco te come ho conosciuto tuo padre e i vostri avi prima di voi.»
«E di cosa dovremmo parlare?»
«Attendi un attimo ancora.»
Iniziarono a sentire dei passi. Due lupi di neve, del tutto simili a quelli che lo avevano condotto lì, lo superarono ai lati e si affiancarono al vecchio minotauro. Appoggiando la testa alla gonna iniziarono ad essere risucchiati dall’indumento, che nel frattempo aumentava di dimensione.
Poi si trovò accanto Hala. Nessuno dei due osò dire nulla.
«Ora che siamo tutti qui, potrò risponderti. Ma prima, benvenuta anche a te.»
Ancora una volta l’anziano prese un pezzo di carne secca dietro la sua schiena. Ancora una volta ne diede un morso e la consegnò alla giovane appena giunta.
«Il destino, come ti ho detto, ha creato per voi questo momento. Sono venuto qui a raccontarvi le storie del tempo passato. Sono qui per dirvi ciò che è stato e ciò che è.» riprese poi.
«Chi sei?»
Harat non provava alcun timore. Si sentiva stranamente sicuro davanti a quel possente estraneo. Ne ascoltava attentamente le parole, ne guardava i movimenti. Hala non poteva dire lo stesso.
«Voi già mi conoscete. Io governerò questi luoghi dopo me stesso, come li ho governati prima. Io sono colui che raffredda queste terre quando il momento è propizio. Io sono me stesso per quattro volte, una dopo l’altra, e oggi è il mio turno. Io sono Madre Primavera e Madre Estate. Io sono Padre Autunno e, ora, Padre Inverno. Khershart, lo sai, è il mio nome e sono venuto per voi in questa fredda notte.»
Il fanciullo non sapeva che dire. Forse stava sognando, anzi sicuramente. Altrimenti dinanzi a sé aveva un dio, in carne e ossa. Non sapeva spiegarsi però la presenza di Hala, che ancora guardava il vecchio minotauro con timore.
«Ti vedo stupito, Harat. Lo comprendo, è normale. Fanciulla, non hai da temere ora, perché non sono qui per arrecarvi alcun male. Ebbene, ora sapete chi sono. Arriviamo al motivo per cui mi trovo qui.»
Si volse una terza volta. Estrasse da una coperta scura un flauto fatto in legno di pino e lo alzò verso il cielo. Lasciò la presa e dei fiocchi di neve si librarono dal pavimento, tenendolo alto. Il vento iniziava a soffiare e così si formava una dolce musica.
«Vi porto in dono delle conoscenze, perciò non temete. Siete pronti?»
Entrambi risposero con un cenno.
«Avete mostrato coraggio ad affrontare la foresta questa notte. Nulla poteva toccarvi sotto la mia protezione, ma vi siete comunque fidati della parola di uno sconosciuto. Vi dirò questo: Oltre le grandi distese d’acqua, dove altri popoli respirano, esistono uomini dalla lingua di lancia. Essi vi parlano bene, ma agiscono alle vostre spalle per farvi del male. Hanno l’oscurità nel cuore e vivono sotto la bandiera della menzogna. Comunque, sapete l’importanza della comunità, vero?»
«La comunità è ciò che ci permette di vivere ogni giorno. Mio papà ha detto che solo col gruppo un minotauro può considerarsi vivo.» disse Hala.
«Il mio ha detto che siamo come fiocchi di neve. Da soli veniamo sconfitti facilmente, ma con la comunità e la famiglia siamo in grado di fare tutto.» continuò Harat.
Il vecchio sorrise, per poi riprendere a parlare.
«Entrambi i vostri padri mostrano saggezza, come sono certo voi mostrerete a coloro che verranno, ed entrambi hanno ragione. Ma non ingannatevi, perché il gruppo non è fatto solo degli altri. Ricordatevi sempre chi siete e migliorate voi stessi, perché la comunità è semplicemente l’unione di tanti singoli. Ricordate questo quando lavorate e servite per la vostra sopravvivenza. Scoprite e studiate pure voi stessi, non solo il mondo che vi circonda, per una famiglia forte ed unita. Anche noi Dei siamo singoli, riuniti per la stessa causa dalla stessa fonte. Tutti i fiumi che nascono dalla stessa montagna, infatti, finiranno nello stesso mare.»
«Ma quando ci sono gli altri Khershart, tu dove vai a finire?» chiese Hala. A sentire quelle parole sembrava aver ripreso coraggio.
«Di Khershart ci sono solo io e non muoio mai. Io sono me stesso pure quando sono la fertile primavera. Io rimango Khershart anche quando sono la combattiva estate oppure il fiero autunno. Io sono me stesso pure ora. Sono il vecchio inverno, a cui solo i più forti e saggi resistono. Non esistono altri Khershart, solo forme diverse di me stesso.»
«Come con gli alberi?» incalzò Harat.
«Sì, più o meno come gli alberi, giovane guerriero.»
Così la notte passava velocemente, mentre le storie sugli dei e i mortali venivano raccontate al suono del flauto.
«Il tempo, fanciulli, è un ciclo. Nasce e muore, ma ogni volta riparte. Così anche voi mortali lo siete. La vostra vita inizia e finisce, ma vivete ancora ogni volta che le vostre gesta vengono narrate. È il vostro modo di sconfiggere quella che chiamate morte. E con questo vi ho detto tutto, giovani guerrieri.»
Harat e Hala erano estasiati. Avevano dinanzi a loro un dio e si sentivano benedetti, perché costui li aveva trattati come dei figli.
Erano così estasiato che non sentirono i veloci passi che si avvicinavano. Il padre di Harat, in preda all’ira, li aveva raggiunti. Li prese a sé e li spostò dietro di lui, coprendoli col corpo.
«Lasciali stare!» gridò.
«Non preoccuparti, non siete in pericolo.» rispose l’anziano, alzandosi lentamente.
I due fanciulli provarono a rispondere, ma non fecero in tempo. Il padre li spinse indietro ed estraendo la spada provò a colpire Khershart.
La mano del Dio fu più veloce e, con un veloce movimento, creò un colpo di vento tale da spingere per diversi metri il minotauro furioso.
Il flauto aveva cessato di suonare ed era ricaduto a terra.
«Adesso fermati!» ordinò poi, portando la mano davanti a sé.
Il silenzio calò su quella pianura. Il padre teneva stretta la spada e copriva i due bambini col proprio corpo.
«Ammiro la tua forza e il tuo coraggio, ma non sono tuo nemico! Non è qui che devi sfidarmi, poiché già lo fai ogni giorno! Riconoscimi! Kharam, figlio di Pekar! Guarda gli occhi del Padre Inverno!» gridò poi il vecchio.
«Provami che quello che dici è la verità!» rispose immediatamente.
Khershart iniziò a muovere le mani. Lentamente la gonna si disfaceva e i cristalli di neve iniziavano a formare i quattro lupi che avevano guidato Harat e Hala fino a quel punto. Sotto aveva una gonnellina più piccola in pelle di orso. Poi spalancò le braccia e iniziò a guardare verso il cielo. Un freddo, lieve vento iniziò a soffiare mentre dei fiocchi iniziarono a cadere.
Infine, come prova ultima della sua potenza sbuffò a pieno petto. Quella che prima era una nevicata si era trasformata in una bufera.
«Hai capito chi sono, ora?» tuonò il dio.
«Khershart, adesso so che sei tu. Risparmia almeno la loro vita!»
«Farò di meglio, mortale.»
La bufera e il vento cessarono immediatamente.
«Oggi mi sono mostrato a voi e di questo incontro vi lascerò un ricordo. Questo per voi sarà un giorno sacro. Ai bambini i capi dei villaggi doneranno gli idoli degli eroi del passato. Ai giovani dovrete narrare e insegnare quanto preziosa è la tribù, affinché non ci si scordi cosa vi ha portato alla grandezza e alla sopravvivenza. Infine festeggerete tutti insieme alla sera, con un grande banchetto in mio onore. Così ho detto e così sarà, d’ora in poi.»
Harat e Hala spostarono il loro sguardo su Khershart e costui, come a sapere già la domanda, disse loro:
«A te, giovane guerriero, e a te, giovane saggia, ho narrato perché mi avete dimostrato di non essere più solo dei bambini. Scoprite il mondo che vi circonda con tutto l’entusiasmo che avete da offrire e comprendete voi stessi.»
Poi il dio ritornò a guardare verso Kharam.
«Ho concluso la mia missione, qui. Questa parte della storia ormai è finita. Tornate al villaggio e scoprirete il mio dono. Narrate ciò che è successo, così anche le altre tribù potranno festeggiare nel mio giorno.»
Quando finì di parlare una colonna di neve si alzò dal terreno, circondando la capanna e Khershart. Era così alta da arrivare fino al cielo e quando concluse, nulla era rimasto.
I tre tornarono in silenzio al villaggio mentre il sole iniziava a sorgere, oltre gli alberi.
Al centro del villaggio scoprirono una grande statua intagliata nel legno, rappresentante proprio Khershart.
È così che, ogni 25 dicembre, il fiero popolo dei minotauri festeggia l’apparizione di Padre Inverno sulle loro terre.
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